PROTOCOLLI COVID-19 e IMPRESA

COVID-19: nuovi (o vecchi) modelli di organizzazione aziendale?

A seguito dell’ultimo Protocollo Nazionale del 24 aprile scorso, purtroppo, potrà solo acuirsi la confusione che contraddistingue questo periodo in merito alla disciplina da applicare negli ambienti di lavoro e che si è via via determinata a causa di una sovrapposizione di competenze in capo ad Autorità e Comitati tecnici nominati dal Governo nei settori strategici.

Non ci si può stupire, inoltre, sul fatto che non sia stata risolta una questione determinante per il futuro delle imprese e che è rappresentata proprio dall’adozione di un nuovo modello di organizzazione aziendale in materia di sicurezza epidemiologica.

Il ritardo con cui si sta studiando la modalità di riapertura delle attività (nonostante l’impegno della task force nominata ad hoc) avrà una incidenza negativa sulle imprese , posto che dalla normativa d’urgenza emanata sino ad oggi, non è chiara la modalità con cui  si stiano affrontando gli aspetti relativi all’obbligo o meno di aggiornamento della valutazione dei rischi la quale “deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità” di cui all’art. 28, commi 1 e 2 d.lgs. 81/08, e ciò “in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori “(art. 29, comma 3, d.lgs 81/08)  nonchè in chiave “preventiva e di protezione” quando se ne evidenzi “la necessità”. Tutto ciò deve essere effettuato, peraltro, coerentemente con la direttiva comunitaria n. 89/391/CEE.

Sono evidenti, quindi, le ripercussioni sotto il profilo penale e giuslavoristico.

Il Legislatore, indicando che si deve trattare di “tutti” i rischi, ricomprende in tale alveo certamente quelli c.d. “connessi” al contesto aziendale; tenuto conto, quindi, delle regole e procedure che i datori di lavoro hanno concepito ed attuato nella loro realtà produttiva.

Il rischio biologico da coronavirus ben si insinua nelle organizzazioni produttive, ma è evidente che possa essere ricondotto alla ipotesi di rischio generico (fatta eccezione che per “specifiche” attività, come ad esempio l’ambito sanitario e ospedaliero).

Essendo tale, non viene generato quindi in un contesto della organizzazione aziendale ma, semmai, costituisce fattore esterno ad esso.

La disciplina del d.lgs 81/08, al suo Titolo X, contempla le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici (art. 266), ma non si può negare che tali rischi siano intimamente collegati all’utilizzo di specifici strumenti aziendali o all’adozione di singoli processi produttivi di lavorazione. Si deve evidenziare, tuttavia, che il COVID-19 non rientra in tali ipotesi poiché c.d. “agente esogeno”.

Le superiori considerazioni pongono un quesito determinante: si tratta di mera questione di natura organizzativa (quindi aziendale) o, invece, di tutela della salute pubblica ?

Se da un lato, infatti, non si può pretendere che qualsiasi elemento esogeno si tramuti in un rischio professionale, dall’altro – tenuto sempre conto che la normativa prevenzionistica ha natura penale – occorre che il datore di lavoro, comunque, ne tenga conto; anche se tale rischio abbia natura “immanente”.

Lo Stato deve indicare la strada da seguire e sino ad oggi – rispetto a quanto delineato con l’adozione dell’ultimo Protocollo COVID-19 siglato da Governo e Parti Sociali nella notte del 24 aprile 2020, che costituisce solo una specificazione dei quello precedente del 14 marzo 2020  – tale percorso è alquanto sconosciuto.

Vi è una certezza: il datore di lavoro dovrà sempre rispettare il precetto generale contenuto nell’art. 2087 c.c., non chiedendosi all’impresa di stravolgere il proprio originario progetto prevenzionistico; pertanto, attualmente, abbiamo solo misure che si affiancano ai principi generali e alla normativa penalistica dei d.lgs 81/08 e 231/01 (quest’ultima in materia di responsabilità ibrida, di natura penale e amministrativa, degli Enti).

Ma cosa significa questo? Tali protocolli si affiancheranno solo provvisoriamente alla disciplina generale? Come si deve adeguare l’Impresa? potrà utilizzare i modelli organizzativi già adottati, semplicemente aggiornandoli alla luce della normativa d’urgenza oppure dovrà costituirne dei nuovi?

Sebbene si speri che tale fase emergenziale sia solo transitoria, non vi è dubbio che si debba procedere ad una vera e propria “riorganizzazione” aziendale legata ad un adeguamento a fonti normative pubbliche, e non solo un aggiornamento al d.lgs 81/08, sotto il profilo della valutazione dei rischi (ex art. 29). Non adeguarsi alle nuove normative emanate in questa fase emergenziale implicherebbe l’applicazione di sanzioni di natura pubblicistica.

Le modifiche organizzative aziendali, infatti, non sono più il frutto di una scelta diretta del datore di lavoro ma sono determinate e condizionate dalla pubblica Autorità. E’ come se si fosse al cospetto di una “avocazione necessitata” dalla posizione di garanzia che, normalmente, assume il datore di lavoro; necessitata, appunto, per il corso della fase di emergenza e finalizzata alla tutela di un interesse pubblicistico.

Si potrebbe quindi ritenere che il problema abbia valenza di salute pubblica e soltanto indirettamente attenga all’organizzazione aziendale; ergo: il datore di lavoro non avrebbe alcun obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi (documento, sin’oggi, collegato a rischi originati all’interno delle attività produttive).

Ad ogni modo In aziende non sanitarie il datore di lavoro dovrà inevitabilmente tenere conto dei precetti generali degli artt. 2086 e 2087 c.c. (obblighi primari) assumendo (moralmente e giuridicamente) una specifica posizione di garanzia.

Tale aspetto è, non di meno, importante in ragione della distinzione tra obblighi che incombono sul medesimo datore: quelli derivanti dalla organizzazione aziendale e gli ulteriori, e più attuali, di attuazione delle misure di contagio dell’Autorità pubblica.

Tale distinzione ha ripercussioni sull’applicazione delle sanzioni poiché, certamente, non potrà passare inosservato l’aspetto di una difficile applicazione “diretta” dell’art. 301 d.lgs 81/08 (contravvenzioni in materia di sicurezza) alle violazioni di misure di prevenzione anti-contagio COVID-19 (le quali, come detto, sono emanate dall’Autorità pubblica).

Per cui le fonti prevenzionistiche sono chiaramente distinte sotto il profilo formale. Si potrebbe, semmai, disquisire sulla loro sovrapposizione.

Le  Raccomandazioni contenute nel DPCM dello scorso 11 marzo 2020 detta alcune linee guida in relazione ad una “diversa” organizzazione aziendale, delineata poi nel Protocollo Nazionale firmato anche dai Sindacati qualche giorno dopo e solo “specificato” con l’ultimo del 24 aprile 2020. A  prescindere dalla “crisi d’identità” in cui sono stati coinvolti i Capitani d’Azienda (e cioè se considerarsi “bollinati” come ATECO o meno…) la natura giuridica del Protocollo è certamente negoziale (essendo accordo interconfederale). Per cui si potrebbe ritenere che il datore di lavoro, che non lo abbia sottoscritto, sia esonerato dall’obbligo di adottarlo.

Ma in realtà, cosi non è, se si considera da un lato il principio generale di cui all’art.2087 c.c. (obbligo di sicurezza), gli artt. 589 e 590 c.p. (fattispecie di reato dell’omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime)  e il d.lgs 231/01 (per la previsione in esso contenuta di cui all’art. 25 septies) modificato dall’ art. 300 d.lgs. 81/08 (materia di sicurezza sul lavoro).

La norme che entrano in gioco sono diverse ed occorre trovare la giusta bussola per orientarsi.

Le questioni da affrontare in tema di esecuzione di tali Protocolli sarebbero – come ormai noto – una miriade: dalla differenza tra responsabilità penale e disciplinare, alla privacy della conservazione dei dati al momento del rilevamento della temperatura in azienda e, ancora, alla possibile sovrapposizione di modelli organizzativi in materia di DPI. Ma è indubbio che la finalità di essi è “ulteriore” rispetto alle prescrizioni del d.lgs 81/08.

Le norme “protocollari” costituiscono misure eccezionali e straordinarie poiché si muovono su un binario parallelo rispetto a quello della legge.

Ma il loro comune denominatore è sempre l’art. 2087 c.c. di cui costituiscono la sua applicazione pratica. E, allora, se la finalità è ulteriore, siamo dinanzi anche ad un modello ulteriore?

E sebbene nel DPCM dello scorso 11 marzo 2020 non si ritrovino delle previsioni sanzionatorie espresse, le violazioni delle disposizioni in esso contenute rimangono pur sempre valide in virtù dell’art. 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità) e ciò anche in forza di quanto espresso nel D.L. n. 6/2020 (ex art. 3, IV comma) secondo cui, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, per il caso in cui non si dovessero rispettare le misure di contenimento COVID-19, si sarà puniti con detta norma penale.

Per cui, alla domanda ulteriore se anche le violazioni delle Raccomandazioni protocollari siano penalmente sanzionabili, la risposta non potrà che essere affermativa, posto che non trattasi di prescrizioni “asciutte” ma – al contrario –  concedenti ampio margine di manovra agli ufficiali accertatori per fini sia ispettivi che di contestazione.

Ulteriore quesito è, infine, se le attuali Raccomandazioni abbiano una efficacia concreta.

Se da un lato non appaiano efficaci le norme sulla prescrizione ed estinzione del reato (artt. 20 e ss. d.lgs 758/94) – non sussistendo, per esse, un imperativo obbligo “diretto” – si possono considerare applicabili, invece, i poteri attribuiti agli organi di vigilanza ed ispezione (in forza dell’art. 302 bis d.lgs 81/08) in materia di igiene e sicurezza.

L’attuale normativa, infatti, mantiene in vita sia il vecchio DPR 520/1955 che la legge 833/1978. Il primo riconosce il potere di disposizione all’Ispettorato del lavoro; la seconda attribuisce valenza alla funzione di esecuzione dell’attività di vigilanza in capo alle ASL. E a seguito di tali attività non è esclusa – chiaramente – l’applicazione della pena dell’arresto fino a mesi 1 e dell’ammenda (sino ad € 413,20) come previsto dall’art. 11, comma 2, D.P.R. n. 520/1955).

Ciò nonostante gli ultimi decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri non ne fanno menzione…

Potrebbe, quindi, rimanere il dubbio circa la possibilità, per gli ispettori ASL di esercitare direttamente – in sede di accertamento – lo specifico potere di disposizione di cui all’art. 10 D.P.R. n. 520/1955 e contestare la violazione dell’obbligo, incombente sul datore di lavoro, di adeguamento alle raccomandazioni.

Se così fosse le disposizioni contenute nei Protocolli Nazionali sarebbero certamente coperte anche dal punto di vista sanzionatorio.

Chiaro è, quindi, che debba darsi importanza preminente alle “prassi” future. Così come appare evidente che ci troveremo a gestire una fase transitoria, su base empirica, con conseguente cristallizzazione delle condotte (replicate e con effetto moltiplicatore) sia in capo alle aziende, che alle Autorità preposte ai controlli (Ispettorato Provinciale del Lavoro e ASL).

Ciò non fa altro che consolidare l’idea che, a prescindere dai dubbi interpretativi delle norme, si debba ugualmente (e velocemente) procedere a creare ed implementale nuovi modelli organizzativi, valutandone la conformità ai Protocolli e prestare attenzione alla loro bontà in un contesto temporale la cui previsione di durata non è facile, per via delle incertezze legate alla fine dell’epidemia e de suo ipotetico effetto rebound.

Il datore di lavoro non ha altra scelta che adeguarsi stante anche  l’applicazione diretta dell’art. 302 bis d.lgs 81/08 il quale prevede che gli organi di vigilanza, nell’esercizio della loro attività di accertamento (finalizzata, come noto, a valutare se siano state adottate le norme tecniche e le “buone prassi”) possano contestare fattispecie di reato, qualora ne riscontrassero una non corretta adozione.

Cosicchè sarebbe chiaramente mantenuta la efficacia sia delle raccomandazioni del DPCM dell’11 marzo 2020, che delle disposizioni contenute nei Protocolli Nazionali (14/03/2020 e 24/04/2020).

Tra l’altro, lo stesso art. 302 bis d.lgs 81/08 “pretende” che il datore di lavoro richiami espressamente la c.d. “buona prassi” durante la fase di ispezione costituendo (tale richiamo) la base per una corretta redazione dei DVR (Documento di Valutazione dei Rischi).

Ciò lascia intendere che si sia di fronte ad un “nuovo, diverso e specifico” modello di organizzazione aziendale, il quale, a parere di chi scrive, dovrebbe essere certificato a seguito di attenta analisi ministeriale delle procedure (Ministero del Lavoro e Politiche Sociali e MISE) di concerto con le Parti Sociali.

La speranza è che, comunque, non si costituisca per questo una ulteriore task force allungando i tempi di una vicenda che (sebbene giuridica) potrebbe ancora lasciare spazio ad ulteriori questioni, con effetti economici non certamente positivi e solo a danno degli imprenditori.

Avv. Mario Galluppi di Cirella